Capita che, durante un week end intenso e mondano come quello del mio trentottesimo compleanno (si si, proprio quello che mi ha visto mangiare dal signor Bottura, evento dell’anno recensito qui), grazie ad un caro amico (grazie Giovanni), io venga condotto a visitare, assieme all’immancabile La Moglie, una Acetaia storica.
Uno di quei posti mistici e mitologici dove viene prodotto il nettare degli Dei per antonomasia, l’Aceto TRADIZIONALE di Modena. Da non confondere con il meno nobile cugino di terzo grado Aceto Balsamico di Modena IGP. Da non mettere nemmeno nella stessa frase con le glasse all’aceto, tutto scritto minuscolo volutamente, ruffiane e dove il contributo acetico è quantomeno marginale.
No, qui stiamo parlando di Sua Maestà, il Signore dei Condimenti, Sua Celebre Viscosità, l’ACETO TRADIZIONALE DI MODENA. L’ho riscritto per evitare potenziali fraintendimenti, repetita iuvant.
Per poter fare a modino la conoscenza di questo fluido meraviglioso, ho potuto varcare i cancelli di Acetaia del Cristo, posta poco fuori dal centro di San Prospero (MO), in una zona meravigliosamente verde della bassa Modenese.
Appena sceso dalla macchina, inizio a lustrarmi le narici, avvolto dal profumo di mosto che mi stringo addosso, pronto a portarmelo via, fino in Liguria.
Iniziamo la visita, scoprendo che questa Acetaia è una delle pochissime che usa la propria uva per fare l’aceto tradizionale, senza acquistarne altrove (se non per sopravvenire a problemi di salute del vigneto, ma nel rispetto del Disciplinare rigidissimo di cui parlerò tra poco). Non ci fanno il vino. No, loro l’uva, quella meravigliosa uva (durante la mia visita, prevalentemente scura, ma usano anche uve bianche) che viene pigiata per iniziare la lavorazione, viene coltivata e raccolta con il solo obiettivo di produrre aceto. Chapeau.
Vediamo tutto.
Dall’uva stessa, raccolta e ordinata in una bella vasca, al macchinario per pigiarla, fino ai “reattori” in cui si ottiene il mosto (tutto a bassa temperatura controllata) – UNICO INGREDIENTE DELL’ACETO – e ai forni in cemento dove viene cotto. Ci viene raccontata la fase di fermentazione, con l’aggiunta di lieviti selezionatissimi, così come la lunga attesa che porta poi, solo dopo diversi mesi, al trasferimento nelle botti madri e poi nelle batterie di botti e botticelle.
E’ un processo macchinoso, complesso, nemmeno facilissimo da rendervi, ma mi piace soffermarmi sulle batterie di botti.
Ogni batteria è composta da 7 botti di dimensioni decrescenti, fatte con legni specifici (Rovere, Gelso, Castagno, Ginepro, Ciliegio, Acacia e Frassino). L’Acetaia del Cristo ha la forza di fare un aceto tradizionale ottenuto in batterie di legni misti, così come di proporre selezioni di aceto ricavate da batterie monolegno, per esaltare le singole essenze e i boquet di sapori trasmessi dal legno al fluido magico.
L’invecchiamento (più di 12 anni o più di 25) è un gran casino da spiegare, considerato che ogni anno piccole percentuali vengono travasate dalla botte più grande fino alla più piccola: sono un ingegnere ma, malgrado questo, il calcolo dell’età dell’Aceto Tradizionale lo lascio volentieri fare a chi ne capisce più di me.
Tutte queste fasi, come anticipato, sono regolamentate da un severissimo DISCIPLINARE. Io me lo immagino come un ciclopico tomo con norme e cavilli a cui attenersi meticolosamente. Fino alla bottiglietta, l’UNICA, con cui può essere commercializzato. Ne esiste solo una, da 100 ml, disegnata da Giorgetto Giugiaro.
Gilberto Barbieri, sapiente padrone di casa, conserva il primo esemplare che l’Acetaia del Cristo ha usato per la propria produzione da quando il Disciplinare ne impone l’utilizzo.
Se in un’altra bottiglia, fatta diversa, doveste trovare la dicitura Aceto Tradizionale di Modena, beh, vi stanno frodando Amici, prendete contromisure.
A tutto questo bello spiegone ha fatto seguito la parte libidinosa.
Assieme a La Moglie e agli amici che ci hanno accompagnati, abbiamo assaggiato TUTTI, si si, TUTTI, gli aceti tradizionali a catalogo dell’Acetaia del Cristo. Tutti, cacchio, non ne ho saltato uno.
Quindi, aceti “12 anni” invecchiati in batterie miste e in batterie ad essenza esclusiva (solo Ciliegio, solo Ginepro, ecc.)…Già un fiume di bava acidula mi pervadeva. Lo so è un’immagine orrida, ma è di un buono, ma di un buono…e poi è giusto produrre saliva. E’, infatti, grazie alla persistenza dell’acidità che si può valutare un buon aceto tradizionale.
Aceti “25 anni”. Qui si fa veramente sul serio, la viscosità diventa davvero importante e i sapori sono estremizzati, dove c’è tannino la bocca si lega, dove si ricorda il ciliegio c’è profumo, persistenza, femminilità. E così via.
E poi gli occhi si girano. Le narici assorbono ogni stilla d’aria che resiste tra il cucchiaino e il naso, mentre la mano porta l’utensile pieno di magia verso la bocca.
E’ la volta del DIAMANTE NERO. La riserva dell’Acetaia. Un aceto tradizionale invecchiato una vita, 50 anni nelle botti più antiche a disposizione.
Tanto per non farsi mancare nulla, ci siamo assaggiati anche quello che è stato premiato come MIGLIORE ACETO TRADIZIONALE DI MODENA DEL MONDO. DEL MONDO. DEL MONDO, si è capito?
Mi sono portato a casa tra libidini, un 12 anni invecchiato nel Ciliegio, un 25 nel Gelso (che ricorda in maniera folle i sapori della nonna, le more di gelso, puro godimento) e, manco da dire, un Diamante Nero.
Di certo si spende per questo condimento prezioso, ma se si pensa alle lavorazioni, al capitale immobilizzato e alla storia di questo liquido, non si può dare peso al costo, ma occorre lasciarsi trasportare dal cuore, dal palato, dalle sensazioni.
Vado a comprare del Parmigiano. Se non muoio di lussuria alimentare, ci rivediamo presto.
Acetaia del Cristo
Via Badia, 41/A,
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